Alle
ultime battute il processo (con rito abbreviato) al giornalista
Maurizio Belpietro per il titolo con cui, all’indomani della strage al
settimanale satirico francese Charlie Hebdo, «aprì» la prima pagina di Libero,
quotidiano di cui all’epoca era direttore: «Questo è l’Islam», con una
foto che mostrava l’attacco terroristico. Era l’8 gennaio 2015.
Belpietro è accusato di «vilipendio» verso coloro «che professano la
religione islamica». In un’aula della decima sezione penale del
Tribunale di Milano, venerdì, è stato il giorno della requisitoria del
pubblico ministero Piero Basilone. Ha «offeso pubblicamente l’Islam,
creando un’immedesimazione tra l’atto terroristico e la religione» e per
questo va condannato a una multa di 7500 euro, è stata la richiesta del
magistrato. Il pm Basilone ha contestato a Belpietro anche l’aggravante
di «avere commesso il fatto per finalità di discriminazione e di odio
religioso» e la violazione della legge Mancino del 1993 che punisce
«discriminazione, odio o violenza per motivi razziali, etnici, nazionali
o religiosi». Reati da cui il giornalista era già stato assolto, nel
dicembre 2017, nel processo per un altro titolo choc: «Bastardi
islamici». Questo pubblicato sulla prima pagina di Libero il 14 novembre 2015, dopo gli attentati di Parigi.
Nella sua requisitoria, il pm Basilone ha citato alcuni passaggi del Corano
e una lettera firmata nel 2014 da 124 guide musulmane e indirizzata ad
Al-Baghdadi, califfo del sedicente Stato Islamico, in cui si criticava
l’interpretazione della religione da parte dell’Isis e si ribadiva che
la fede islamica «proibisce la violenza» in nome di Allah. A partire da
questo presupposto, secondo il pm, Belpietro con quel titolo «non ha
rispettato il presupposto di verità sull’Islam». E questo è ancora più
grave, secondo Basilone, in quanto il giornalista è «un uomo colto e
stimato, capace di orientare il consenso e quindi il suo operato è
ancora più pericoloso».
Il difensore di Belpietro, l’avvocato Valentina Ramella,
ha chiesto, invece, che il suo assistito sia «assolto perché il fatto
non sussiste» perché sostiene che non vi sarebbe «offesa diretta né a
una, né a 150, né a un milione di persone».
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