ISRAELE=ASSASSINI SI PUO' DIRE................ MA SOLO SE SI È AMICI DELLA DIGOS E "DESINISTRA" ecco le motivazioni della sentenza di maggio http://mauriziodangelo.blogspot.com/2017/05/striscione-contro-israele-non-e-odio.html
Tribunale di Vercelli, sentenza del 24 maggio 2017
Con
la sentenza in commento, resa il 24 maggio 2017, il Tribunale di
Vercelli in composizione monocratica ha avuto modo di affrontare un
interessante caso di applicazione della cosiddetta Legge Mancino (Legge
n. 654 del 1975, modificata nel 1993 su proposta dell’allora Ministro
dell’interno Mancino), in particolare dell’art. 3, comma primo, lettera a): ciò è a dire la fattispecie di propaganda di idee fondate sull’odio razziale o etnico.
Imputati, due attivisti della sinistra
antagonista locale i quali, nella notte tra il 17 e il 18 luglio 2014,
hanno appeso alla cancellata della Sinagoga di Vercelli – uno splendido
edificio di fine ottocento realizzato dall’architetto Giuseppe Locarni
nel cuore dell’antico ghetto - un drappo con la scritta “#STOP BOMBING GAZA ISRAELE ASSASINI FREE PALESTINE”.
Il processo – che ha avuto una certa
risonanza a livello locale soprattutto per la costituzione di parte
civile della Comunità Ebraica di Vercelli, Biella, Novara e Verbano
Cusio Ossola – non ha presentato alcuna difficoltà in ordine alla
ricostruzione del fatto e alla sua ascrivibilità ai due imputati, che ne
hanno immediatamente ammesso – anzi, rivendicato – la paternità con una dichiarazione congiunta letta all’apertura del dibattimento.
Piuttosto, è stata un’ottima occasione di riflessione su una norma molto citata dai media e spesso oggetto di querelle a sfondo politico (chi, “da sinistra”, la vorrebbe estendere ai reati di genere e a quelli commessi per omo o trans-fobia;
chi invece, “da destra”, la ritiene in contrasto con la libertà di
espressione e di critica politica) ma scarsamente applicata dai
tribunali di merito.
La riflessione della giudice inizia con
la correzione dell’imputazione contenuta nel decreto di citazione a
giudizio, erroneamente individuata in un decreto legge di modifica (il
n. 122 del 1993 per esattezza, peraltro poi superato da un restyling
di più ampio respiro, che ha dato alla norma la forma attuale,
contenuto nella legge n. 85 del 2006) e correttamente ricondotta,
appunto, alla fattispecie dell’art. 3, comma 1, lett a), della
legge n. 654 del 1975: il quale prevede la pena della reclusione sino a
un anno e sei mesi, alternativa alla multa sino a seimila euro, per chi
propagandi idee fondate sulla superiorità o sull’odio razziale o etnico,
ovvero istighi a commettere o commetta atti di discriminazione per
motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi.
L’istruttoria dibattimentale ha contato,
oltre che sull’esame dei due imputati, di altri attivisti locali e di
alcuni operanti della questura, anche sull’importante testimonianza di
un operatore umanitario (teste R***) concretamente attivo nella
zona di Gaza, il quale ha parlato della cosiddetta “Operazione Margine
di Protezione”: nome in codice della campagna militare iniziata l’8
luglio 2014 dalle Forze di difesa israeliane contro i guerriglieri
palestinesi di Hamas e altri gruppi nella Striscia di Gaza, e che
avrebbe avuto termine il 26 agosto dello stesso anno.
L’intento dichiarato dell’operazione
israeliana era quello di fermare il lancio di missili dalla Striscia di
Gaza verso il proprio territorio, intensificatosi dopo il giro di vite
operato dagli israeliani a seguito del rapimento e dell’uccisione di tre
adolescenti israeliani ad opera di due membri di Hamas.
Il 17 luglio era iniziata l’invasione di
terra con l’obiettivo di distruggere la rete di tunnel di Hamas e,
proprio nel corso di quella giornata, era stato distrutto un centro di
accoglienza italiano a Gaza che ospitava donne e bambini.
Il bilancio ufficiale delle vittime
dell’operazione, a Gaza, si è poi attestato tra le 2.125 e le 2.310
vittime, tra cui 495-578 bambini, ai quali si aggiungono 5 civili uccisi
dall’esplosione di un ordigno israeliano durante uno sminamento: tra
queste, il videoreporter italiano Simone Camilli.
È quindi stato fin da subito evidente
che la protesta dei due imputati non fosse rivolta genericamente contro
il popolo israeliano in quanto popolo ebraico, bensì contro la politica
militare israeliana: e infatti l’istruttoria ha altresì toccato (testi B*** e H***) il tema generale della differenza tra antisionismo ed antisemitismo,
e dell’esistenza di posizioni contrarie allo stato di Israele diffuse
anche tra gli stessi cittadini israeliani e in molte comunità ebraiche
europee.
La connotazione politica, e non
strettamente etnica o religiosa, della condotta non vale tuttavia a
distrarla aprioristicamente dall’area del “penalmente rilevante”, in
quanto può certamente darsi che proprio motivazioni squisitamente
politiche stiano alla base di un sentimento di ostilità e avversione nei
confronti di un intero popolo, la cui comunicazione all’esterno nelle
forme dell’istigazione o della propaganda, ben può integrare,
consequenzialmente, il precetto penale (si veda, ad esempio, proprio sul
concetto di propaganda, Cass. Sez. 1, Sentenza n. 10779 del 12/05/1986, Rv. 173926,
secondo la quale concreta il reato di propaganda sovversiva l’azione di
colui che, in qualsiasi modo e con qualsiasi mezzo di diffusione, ponga
a conoscenza di un numero indeterminato di persone idee, propositi ed
apprezzamenti di ordine sociale o politico idonei, per la loro
concretezza e specificità, a provocare un effettivo e concreto pericolo
di adesione alle idee, alle tesi ed ai propositi propagandati).
La soluzione, dunque, non poteva (e non
può) che essere quella di un attento contemperamento della libertà di
manifestazione del pensiero e di espressione – diritto tutelato alle più
alte vette della gerarchia delle fonti (articolo 21 della Costituzione;
articolo 10 della Convenzione per la salvaguardia dei Diritti
dell’uomo; articolo 11 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione
europea) – in vista della protezione del “bene giuridico” sotteso alla
fattispecie in scrutinio.
Si è molto discusso, al riguardo, sulla reale oggettività giuridica
delle disposizioni penali che sanzionano gli atti discriminatori, ed è
ormai opinione largamente diffusa in dottrina, e condivisa dalla
giurisprudenza, che il “bene giuridico” protetto dalle norme
incriminatrici in tema di discriminazione sia la dignità dell’uomo in sé; e che, quindi, il bilanciamento si giochi fra beni di rilievo costituzionale: la libertà di manifestazione del pensiero da un lato e la pari dignità di tutti gli uomini dall’altro: là dove a essa − alla dignità umana
appunto – si trovano riferimenti impliciti in quelle disposizioni,
costituzionali e convenzionali, che sanciscono in generale il
riconoscimento dei diritti inviolabili della persona o l’affermazione
dell’uguaglianza formale e sostanziale di tutti i cittadini, come gli
articoli 2 e 3 della Costituzione e gli articoli 2, 3 e 8 della Convenzione per la salvaguardia dei Diritti dell’uomo; oltre che un riferimento esplicito all’articolo 1 della Carta dei Diritti fondamentali dell’Unione europea, che segue a un riconoscimento della dignità umana fra i principi generali dell’ordinamento comunitario già in precedenza statuito per via giurisprudenziale.
Il principio della dignità umana peraltro assume, nel sistema assiologico euro-unitario a carattere multilivello, piuttosto la condizione di postulato ontologico del sistema dei diritti costituzionali e di premessa di tutti i diritti umani: sì che esso può assumere un contenuto più concreto soltanto per effetto della configurazione
e della formulazione attribuitegli nei singoli diritti fondamentali in
rapporto ai quali funge da criterio valutativo e interpretativo [1], e quindi anche in rapporto alla – e come limite della – la libertà di manifestazione del pensiero: in questo senso definendosi, in una sorta di dialettica negativa, come limite alla libertà di espressione.
A ciò consegue che la giurisprudenza in materia si delinei necessariamente come giurisprudenza del caso concreto,
essendo possibile tracciare una linea di confine tra i due diritti,
entrambi di rilievo costituzionale e convenzionale, solo avendo riguardo
alla concreta fattispecie.
Ad esempio, Cass. Sez. 3, Sentenza n. 37581 del 07 maggio 2008, Mereu, Rv. 241071,
ha ritenuto manifestamente infondata la questione di costituzionalità
dell’art. 3, legge 13 ottobre 1975, n. 654 (modificato dal dl 24 aprile
1993, n. 122, conv. con modd. in legge 25 giugno 1993, n. 205 nonché
dall’art. 13, legge 24 febbraio 2006, n. 85) laddove vieta la diffusione
in qualsiasi modo di idee fondate sulla superiorità o sull’odio
razziale, per asserito contrasto con l’art. 21 Cost., in quanto la
libertà di manifestazione del pensiero e quella di ricerca storica
cessano quando travalicano in istigazione alla discriminazione ed alla
violenza di tipo razzista (In motivazione la Corte ha ulteriormente
precisato che la libertà costituzionalmente garantita dall’art. 21 non
ha valore assoluto ma deve essere coordinata con altri valori
costituzionali di pari rango, quali quelli fissati dall’art. 3 e
dall’art. 117, comma primo, Cost.). Analogamente Cass. Sez. 5, Sentenza n. 31655 del 24 gennaio 2001, Gariglio, Rv. 220021, ha
ritenuto manifestamente infondata la questione di legittimità
costituzionale, per contrasto con l’art. 25, secondo comma, Cost.,
dell’art. 3, comma 3 della legge 13 ottobre 1975, n. 654, come
modificato dall’art. 1 del dl 26 aprile 1993, n. 122, convertito nella
legge 25 giugno 1993, n. 205 nella parte in cui configura come reato
associativo la promozione, la direzione o la semplice partecipazione ad
ogni forma di organizzazione che abbia tra i propri scopi l’incitamento
alla discriminazione o alla violenza per motivi razziali, etnici,
nazionali o religiosi, atteso che il precetto deve ritenersi tipizzato
in base alla individuazione dello scopo ultimo della struttura
collettiva, che consiste nel limitare o impedire ad altri individui
della stessa società civile l’esercizio dei propri diritti civili e
politici, individuali e collettivi.
Ponendosi sulla stessa linea, Cass. Sez. 3, Sentenza n. 33179 del 24 aprile 2013, Scarpino, Rv. 257216
, ha ritenuto integrata la fattispecie di associazione per delinquere
finalizzata all’incitamento e alla violenza per motivi razziali, etnici e
religiosi anche da una struttura che utilizzi il blog per
tenere i contatti tra gli aderenti, fare proselitismo, anche mediante la
diffusione di documenti e testi inneggianti al razzismo, programmare
azioni dimostrative o violente, raccogliere elargizioni economiche a
favore del forum, censire episodi o persone responsabili di aver operato a favore dell’uguaglianza e dell’integrazione degli immigrati.
Del resto, la linea era già stata
tracciata dalla giurisprudenza della Corte Costituzionale, che aveva
precisato, a proposito della cd. legge Scelba (n. 645/1952), con
specifico riguardo al reato di apologia del fascismo, che la libertà di
manifestazione del pensiero non può spingersi oltre il limite segnato da
altri principi costituzionali fondamentali (cfr. le sentenze di rigetto
delle relative questioni di legittimità costituzionale, n. 1 del 1957 e
n. 74 del 1958).
Più di recente, invece, la
giurisprudenza di legittimità pare essere andata oltre nell’analisi
della fattispecie, soprattutto relativamente alla ratio sottesa
e alla conseguente selezione delle condotte rilevanti, proprio al fine
di salvaguardare in egual modo, con un equo contemperamento, entrambi i
diritti di rango costituzionale: ad esempio Cass. Sez. 3, Sentenza n. 36906 del 23/06/2015, Salmè, Rv. 264376, ha stabilito che ai fini della configurabilità del reato previsto dall’art. 3, comma primo, lett. a),
prima parte, legge 13 ottobre 1975, n. 654, la “propaganda di idee”
consiste nella divulgazione di opinioni finalizzata ad influenzare il
comportamento o la psicologia di un vasto pubblico ed a raccogliere
adesioni; l’”odio razziale o etnico” è integrato non da qualsiasi
sentimento di generica antipatia, insofferenza o rifiuto riconducibile a
motivazioni attinenti alla razza, alla nazionalità o alla religione, ma
solo da un sentimento idoneo a determinare il concreto pericolo di
comportamenti discriminatori, e la “discriminazione per motivi razziali”
è quella fondata sulla qualità personale del soggetto, non – invece −
sui suoi comportamenti.
Allo stesso modo, Cass. Sez. 1, Sentenza n. 42727 del 22 maggio 2015, Valandro, Rv. 264854
ha ritenuto che il reato di incitamento alla violenza ed atti di
provocazione commessi per motivi razziali, etnici, nazionali o
religiosi, previsto dall’art. 3, comma primo, lett. b), legge 13 ottobre 1975 n. 654 e successive modificazioni, sia un reato di pericolo,
e che si perfezioni indipendentemente dalla circostanza che
l’istigazione sia accolta dai destinatari, essendo tuttavia necessario
valutare la concreta e intrinseca capacità della condotta a determinare
altri a compiere un’azione violenta, con riferimento al contesto
specifico ed alle modalità del fatto.
Rigoroso accertamento della finalità
etnica, razziale o religiosa, della propaganda da un lato, e concreto
pericolo di adesione di terzi all’istigazione e quindi della diffusione
di condotte violente o discriminatorie dall’altro, quindi, sono i due
cardini si cui di regge il catafratto della fattispecie.
Di più difficile lettura si dimostra la
giurisprudenza della Corte di Strasburgo e questo perché,
nell’interpretazione della Convenzione, il diritto di libera
manifestazione del pensiero (tutelato, come si è detto, all’ art. 10
della Convenzione) è tradizionalmente affermato con una tale forza
“attrattiva” da fare usualmente premio nel bilanciamento con il divieto
di discriminazione (pure sancito all’art. 14 della Convenzione).
Secondo la filosofia ispiratrice dalla
Corte, nella sostanza, una democrazia matura non deve temere, né quindi
censurare, nemmeno la manifestazione delle idee più riprovevoli, dovendo
invece affidare all’opinione pubblica il compito valutarle criticamente
(esempi molto citati al riguardo sono i casi Jersild c. Danimarca e Perinçek c. Svizzera).
La Corte appare più cauta, invece,
quando le idee a carattere razzista o negazionista riguardano la Shoah;
ad esempio nel noto caso dell’intellettuale francese di fede islamica
Roger Garaudy, condannato in Francia per contestazione di crimini contro
l’umanità in relazione alla sua opera I miti fondanti del moderno Stato di Israele,
pubblicata nel 1995 e di ispirazione marcatamente negazionista, la
Corte respinse il ricorso del condannato affermando che «la maggior
parte del contenuto e il tono generale dell’opera del ricorrente, e
dunque il suo scopo, hanno una marcata natura negazionista e contrastano
quindi con i valori fondamentali della Convenzione, quali espressi nel
suo Preambolo, ossia la giustizia e la pace. Rileva che il ricorrente
tenta di fuorviare l’art. 10 della Convenzione dalla sua vocazione
utilizzando il suo diritto alla libertà di espressione per fini contrari
alla lettera ed allo spirito della Convenzione. I predetti fini, se
fossero tollerati, contribuirebbero alla distruzione dei diritti e delle
libertà garantiti dalla Convenzione».
Appare quindi evidente come
l’orientamento dei giudici della Corte Edu non possa dirsi del tutto
consolidato e univoco nel bilanciamento fra gli opposti principi in
gioco, e che molto dipenda (si torna a ripetere) dal contesto
nell’ambito del quale s’inserisce il caso concreto: il che, del resto, è
effettivamente in linea con la natura per così dire “ibrida” della
giurisprudenza della Corte Edu: una sorta di tertium genus tra common e civil law, nel quale, piuttosto che una rigida applicazione dello stare decisis,
si nota un costante riferimento ai precedenti della Corte; sì che se da
un lato si tratta a tutta evidenza di una tecnica casistica (per restatement of law), dall’altro lato non esita mai in una rigida applicazione dello stare decisis, bensì in un apparente distinguishing:
che però, nella sostanza, non è tale, posto che, non essendo
riconosciuta la rigida vincolatività del precedente, la decisione è
sempre sul singolo caso, mentre la critica del giudizio, per così dire, consiste in un riferimento costante alla giurisprudenza precedente.
Tornando al caso di specie, e
avvicinandoci alla – condivisibile – soluzione assolutoria adottata
dalla giudice del caso, si direbbe che l’applicazione della
criteriologia elaborata dalla Corte di cassazione, nel solco tracciato
dalla giurisprudenza costituzionale, porti a escludere immediatamente la
possibile iscrizione della condotta dei due imputati a una finalità di
discriminazione etnica, razziale o religiosa, in quanto il bersaglio
della protesta, e del relativo tono violento e ingiurioso, era senza
dubbio la politica militare israeliana nel suo complesso e,
segnatamente, la singola operazione militare andata sotto il nome di
“operazione margine di protezione”.
Né potrebbe in alcun modo sostenersi che
il gesto degli imputati abbia realizzato un effettivo pericolo che, per
emulazione, terzi adottassero condotte discriminatorie o violente nei
confronti di cittadini israeliani o di origine e/o fede ebraica, in
quanto il contesto di azione è, al contrario, quello di una storia
politica − quella dei due imputati − notoriamente vicina alla sinistra
antagonista vercellese e certamente lontana da qualsiasi ideologia a
sfondo razzista, filonazista o negazionista. Uno degli imputati ha
infatti tenuto a sottolineare di avere sempre contrastato ogni forma di
razzismo contro il popolo ebraico, anche attraverso iniziative concrete,
precisando di non aver mai cambiato idea sul punto. In particolare, ai
tempi della scuola, aveva organizzato assemblee sulla tragedia
dell’Olocausto, aveva partecipato a numerose manifestazioni in occasione
del 25 aprile nonché ad un presidio vicino ad un circolo di estrema
destra dove era in corso un’iniziativa sull’attualità della rivoluzione
hitleriana; e queste circostanze sono state confermate da un operante di
P.G. che conosceva gli odierni imputati proprio per il loro ruolo di
attivisti e frequentatori del centro sociale.
La finalità di discriminazione razziale o etnica nei confronti del popolo ebraico, e la correlativa lesione della dignità umana,
è quindi da escludere in radice proprio perché, anzi, i due imputati
hanno agito nell’opposta convinzione profonda di difendere, con tattiche
di sensibilizzazione dell’opinione pubblica anche di forte impatto, il
diritto alla dignità, e prima ancora quello alla sopravvivenza, della
popolazione civile palestinese.
Né si potrebbe tacciare questa
convinzione di puro soggettivismo, atteso che la condotta militare
israeliana è stata già fatta segno non solo a fortissime censure
politiche − anche, come si diceva, all’interno delle stesse comunità
ebraiche − ma altresì a un importante richiamo della Corte
internazionale di giustizia dell’Aja, che, con il parere consultivo reso
il 9 luglio 2004 (in ordine al progetto di costruzione dell’attuale
“Barriera di separazione israeliana”, costruita dallo Stato di Israele
in Cisgiordania a partire dal 2002), dopo avere passato in rassegna le
tappe fondamentali del conflitto militare israeliano palestinese e le
risoluzioni Onu susseguitesi negli anni, è giunta a definire lo Stato di
Israele come una “potenza occupante” affermando quanto segue:
«La Corte ricorda la risoluzione 242
(1967) del 22 novembre 1967 del Consiglio di sicurezza, che chiedeva il
ritiro delle forze armate israeliane dai territori occupati, e le
condanne, ripetutamente espresse, dallo stesso organismo, nei confronti
dei tentativi di modificare lo status di Gerusalemme, per
riaffermare la necessità di rispettare la regola consuetudinaria
dell’inammissibilità delle acquisizioni di territori con la forza.
Non si può certo negare l’esistenza del
popolo palestinese, riconosciuta del resto dallo stesso Israele con lo
scambio di lettere del 9 settembre 1993 fra Arafat e Rabin e con la
firma dell’Accordo ad interim israelo-palestinese sulla
Cisgiordania e la Striscia di Gaza del 28 settembre 1995, che contiene
un riferimento ai diritti del popolo palestinese, fra i quali quello
all’autodeterminazione (16).
La costruzione del muro e l’esistenza
stessa delle colonie israeliane sui territori occupati contravvengono al
divieto stabilito dall’art. 49 della Quarta Convenzione di Ginevra
secondo il quale “la potenza occupante non potrà procedere alla
deportazione o al trasferimento d’una parte della propria popolazione
civile nei territori che essa occupa”.
Con la propria risoluzione 446 (1979)
del 22 marzo 1979, ribadita in varie occasioni, il Consiglio di
sicurezza, ha del resto esplicitamente chiesto al governo israeliano di
revocare le misure già adottate e di astenersi dall’adottare nuove
misure miranti a modificare lo status giuridico e il carattere geografico dei territori occupati, in particolare influendo sulla loro composizione demografica.
Pur prendendo atto delle assicurazioni
formulate da Israele che il muro costituisce una misura temporanea, la
Corte considera che in questo modo si tende a produrre un “fatto
compiuto” e a consacrare sul terreno le misure illegali adottate da
Israele e già deplorate dal Consiglio di sicurezza.
Viene in tal modo posto un grave ostacolo all’esercizio del diritto di autodeterminazione da parte del popolo palestinese» [2].
Non è quindi revocabile in dubbio che la
posizione degli imputati, di assoluta contrarietà alla politica
militare di tipo sionista, conti su un’estesa sittlichkeit legittimante, ampiamente diffusa anche in seno al diritto internazionale.
Ora, esclusa la finalità di
discriminazione razziale della condotta, ed escluso parimenti il
concreto pericolo di realizzazione, da parte di terzi, di condotte
discriminatorie mutuabili dalla condotta degli imputati, resta da
osservare come lo striscione in questione contenesse, nella stessa
frase, oltre ai richiami (in lingua inglese) alla chiara ispirazione
politica del gesto (“STOPBOMBINGGAZA” e “FREE PALESTINE”) anche un
epiteto indiscutibilmente ingiurioso: “ISRAELE ASSASINI”.
Del tutto correttamente, la giudice non
si è posta il problema dell’eventuale riqualificazione del fatto in
questo senso, attesa la recente depenalizzazione del reato di ingiuria
ad opera del d.lgs n. 7 del 2016.
In sede di commento, tuttavia, vale la
pena chiedersi se, a prescindere dal rilievo certamente assorbente della
depenalizzazione, l’ingiuria genericamente rivolta allo Stato di
Israele (e quindi quantomeno alla sua rappresentanza politico
istituzionale del momento) potesse considerarsi, o meno, scriminata
dall’esimente del diritto di critica politica, in risposta all’esigenza
di configurare un “diritto penale minimo” (kernstrafrecht) non invasivo della sfera politico espressiva.
In effetti, nonostante la questione
della scriminante del diritto di cronaca e di critica abbia nutrito, e
continui a nutrire, maggiormente la casistica di diffamazione, scorrendo
i precedenti (ormai destinati all’archivio storico, vista la cassazione
della fattispecie) si rinvengono pronunce che hanno ritenuto
applicabile l’esimente in questione anche al reato di ingiuria; ad
esempio Cass. Sez. 5, Sentenza n. 14459 del 02/02/2011, Contrisciani, Rv. 249935,
ha affermato che l’esercizio del diritto di critica politica può
rendere non punibili espressioni anche aspre e giudizi di per sé
ingiuriosi, tesi a stigmatizzare comportamenti realmente tenuti da un
personaggio pubblico, ma non può scriminare la falsa attribuzione di una
condotta scorretta, utilizzata come fondamento per l’esposizione a
critica del personaggio stesso.
Valutato quindi il contesto dell’azione,
non sembra da escludere che, anche sotto la vigenza del reato di
ingiuria, la difesa avrebbe avuto buoni argomenti per invocare la
scriminante della critica politica in relazione all’unica espressione
ingiuriosa contenuta nel breve testo, in quanto strettamente legata alla
critica di un’operazione militare realmente avvenuta e all’interno di
un contesto militare che, come si è visto, è al centro di fortissime
critiche non solo politiche ma anche provenienti da Autorità
giudiziarie internazionali.
[1] V. Baldini, La dignità umana tra approcci teorici ed esperienze interpretative, Università degli studi di Cassino e del Lazio Meridionale.
[2] Corte
Internazionale di Giustizia, parere consultivo reso il 9 luglio 2004 su
Domanda di parere adottata dalla decima sessione straordinaria
d'urgenza dell'Assemblea generale - Sessione convocata sulla base della
risoluzione 377 A (V).
13 dicembre 2017
http://questionegiustizia.it/articolo/un-interessante-decisione-sulla-legge-mancino_nota-a-sentenza-del-tribunale-di-vercelli-del-24-maggio-2017_13-12-2017.php
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RispondiEliminasinistri gente inutile come riconosce il tribunale di vercelli.....andate a raccogliere il riso